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One Health, che cos’è e come nasce

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Ci sono due paroline che, poco alla volta, si stanno facendo strada nel contesto scientifico: “One” e “Health”. Messe insieme, fanno “One Health”. Ovvero: una sola salute. Un titolo semplice e facile da memorizzare, per spiegare perché d’ora in avanti ogni scelta che riguarda la tutela sanitaria della popolazione non possa che integrare gli aspetti che riguardano la salute dell’ambiente, quella degli animali e quella dell’uomo. Cito volutamente quest’ultima in coda alla lista, perché siamo reduci da un secolo in cui si è fatta sempre più strada una visione antropocentrica del mondo. L’uomo al centro e tutto il resto (meno importante) attorno. Oggi, complice la pandemia da Covid-19 e la recrudescenza di altre malattie infettive (su tutti la poliomielite e il vaiolo delle scimmie, ma anche ebola), stiamo riscoprendo quanto la natura (intesa come regno vegetale e animale) abbia un riflesso anche sulla nostra salute. E se dunque non in tutti noi alberga un sentimento di attenzione e solidarietà nei confronti di ciò che ci circonda, vale la pena di conoscere che cosa vuol dire avere un approccio “One Health” anche nell’interesse della nostra salute.

“One Health”: di cosa si tratta?

La definizione più chiara di “One Health” la si ritrova sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità. Come tale viene definito “un modello sanitario basato sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema siano indissolubilmente legate”. E che di conseguenza coinvolge non soltanto i medici, ma anche i veterinari, gli ambientalisti, gli economisti e i sociologi. “La One Health è un approccio ideale per raggiungere la salute globale perché affronta i bisogni delle popolazioni più vulnerabili sulla base dell’intima relazione tra la loro salute, la salute dei loro animali e l’ambiente in cui vivono, considerando l’ampio spettro di determinanti che da questa relazione emerge”. Il tema comune è la collaborazione in tutti i settori che hanno un impatto diretto o indiretto sulla salute, lavorando attraverso silos trasversali ai diversi settori e ottimizzando le risorse e gli sforzi nel rispetto dell’autonomia dei vari settori. A partire, naturalmente, anche dalle scelte alimentari.

Che cosa si intende per gestione “One Health” della salute?

Quanto illustrato finora, è la teoria. La migliore spiegazione pratica è quella che ho avuto modo di ascoltare nelle scorse settimane da Stefano Bertuzzi, CEO dell’American Society of Microbiology. Lo scienziato piacentino, il più stretto collaboratore di Anthony Fauci, ha aperto i lavori di “One Health Award”, un evento di divulgazione scientifica organizzato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Teramo proprio con l’obbiettivo di spiegare l’importanza di una visione olistica della salute. “Se pensiamo a come fronteggiare la fase acuta di una pandemia, il compito spetta al sistema sanitario – ha spiegato Bertuzzi -. Ma se ragioniamo anche su come prevenire o contenere la diffusione di un patogeno, le responsabilità sono anche di chi si occupa di salute animale e vegetale. Vivendo in un ecosistema circolare, in cui tutto è collegato, non possiamo agire soltanto su una sua componente. Le zoonosi, come anche le malattie trasmesse dagli insetti, vanno scoperte e fermate prima che abbiano conseguenze sulla popolazione umana. Farlo dopo vuol dire essere già in emergenza”.

Lo spillover un rischio legato ai moderni stili di vita

La pandemia da Covid-19 ha dunque sdoganato un limite nella gestione delle malattie infettive che in realtà esiste però da sempre. Solo che se in passato era difficilmente immaginabile una sinergia atta per esempio a controllare i fenomeni di “spillover”, oggi ci sarebbero tutte le condizioni quanto meno per iniziare a muoversi in questo senso. Un’opportunità che è resa tanto più urgente dai cambiamenti nelle abitudini di vita (popolazione e densità abitative crescenti, riduzione continua degli spazi dedicati alla natura selvaggia, interconnessione planetaria, cambiamento climatico) che – come ricorda un articolo appena pubblicato sul “Journal of the American Medical Association” – stanno rendendo questi salti di specie molto più frequenti. Recentemente, sulla rivista “Nature”, è stata pubblicata una ricerca secondo la quale almeno diecimila specie di virus avrebbero la capacità di infettare l’uomo ma per il momento circolano solo all’interno del mondo animale selvaggio. I ricercatori hanno simulato diversi scenari di cambiamento climatico e di espansione umana (deforestazione, uso suolo, espansione in zone selvagge), scoprendo che moltissimi di questi virus nel futuro potrebbero entrare in contatto con l’uomo e compiere il famoso salto. Creando, così, una nuova potenziale zoonosi.

Cosa vuol dire che all’orizzonte c’è una “Malattia X”?

Sempre più spesso gli esperti di malattie infettive parlano di “disease X”. Un’espressione con cui si identifica la prossima emergenza sanitaria. “Non sappiamo quale sarà la prossima, ma siamo certi che ce ne sarà sicuramente una”, è quanto gli esperti di sanità pubblica ripetono da mesi in ogni occasione. Se il suo arrivo è inevitabile, ciò che farà la differenza è la capacità di farsi trovare pronti all’appuntamento. Con un approccio “One Health”, per l’appunto. Qualcosa si inizia a intravedere, almeno in termini di accordi tra enti e Paesi diversi. Quella che serve, infatti, è una rivoluzione. A guidarla dovrebbe essere una regia sovranazionale, che al momento però non esiste. Anzi: in alcuni casi è ancora il nazionalismo a farla da padrone. Si pensi, per esempio, alla gestione dei vaccini a mRna, che rimangono i più efficaci nella lotta a Covid-19. Eppure, per fare un esempio, la Cina non li utilizza, perché prodotti dagli Stati Uniti. E oggi permette a oltre un miliardo di persone di essere non adeguatamente protette. E dunque serbatoio ideale per una nuova ondata di contagi da Sars-CoV-2, con tutti i rischi che ne conseguirebbero: dall’aumento dei decessi all’eventualità di formazione di nuove varianti.

L’approccio “One Health” fondamentale per affrontare il problema della resistenza agli antibiotici

Senza dimenticare che c’è una minaccia ben più significativa di Covid-19 che stiamo sottovalutando: la resistenza agli antibiotici. Le proiezioni dicono che, senza un cambio di rotta, provocherà almeno dieci milioni di morti ogni anno entro il 2050. Sappiamo già che nei Paesi in via di sviluppo sono stati identificati oltre mille nuovi geni presenti in batteri che rendono inutile anche l’utilizzo degli antibiotici più sofisticati. Se non studiamo l’ambiente e non finanziamo la ricerca epidemiologica e di base, sarà soltanto questione di tempo. Questi geni arriveranno nei nostri ospedali e causeranno un aumento di infezioni impossibili da curare. E, di conseguenza, dei decessi. Per proteggerci, in questo senso, dovremmo limitare l’uso degli antibiotici a uso profilattico negli animali e integrare gli studi di sorveglianza e ricerca nell’ambiente, per conoscere e comprendere i nuovi virus e le resistenze che sono dominanti in natura.

Per saperne di più:

Living in an Age of Pandemics – From COVID-19 to Monkeypox, Polio, and Disease X, Journal of the American Medical Association

Climate change increases cross-species viral transmission risk, Nature

The One Health Approach – Why Is It So Important?, Tropical Medicine and Infectious Disease

Applying a One Health Approach in Global Health and Medicine: Enhancing Involvement of Medical Schools and Global Health Centers, Annals of Global Health

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