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Covid-19: reinfezioni, cosa accade nei pazienti fragili

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Con la circolazione assoluta di Omicron, nelle sue diverse subvarianti, sta aumentando il numero anche degli italiani che si stanno infettando per la seconda (o terza) volta con Sars-CoV-2. Il contagio è la conseguenza della capacità dell’ultima forma del coronavirus di eludere la risposta immunitaria garantita dalla vaccinazione o dall’aver già contratto l’infezione. Un’evenienza non semplice da evitare e quasi sempre gestibile: senza particolari rischi per la salute. A patto però di non essere in una condizione di fragilità. In questi casi, infatti, anche se già entrati a contatto con il virus e adeguatamente vaccinati, Sars-CoV-2 può comportare quadri più gravi (nella fase acuta) o determinare comunque l’insorgere di danni a livello di vari organi. Da qui l’invito – soprattutto in queste settimane: caratterizzate dalla diffusione di diversi virus respiratori e in vista degli incontri famigliari che contraddistinguono il periodo natalizio – a mettersi al passo con la vaccinazione (se non lo si è ancora) e a utilizzare la mascherina almeno nei luoghi chiusi.

Sars-CoV-2: l’analisi sulle reinfezioni su quasi sei milioni di persone

La riflessione emerge da uno studio pubblicato sulla rivista «Nature Medicine» da un gruppo di ricercatori della facoltà di Medicina dell’Università di Washington: i primi ad aver valutato su larga scala le possibili conseguenze di infezioni plurime da coronavirus. I camici bianchi hanno monitorato nel tempo le condizioni di salute di oltre cinque milioni di persone mai entrate a contatto con Sars-CoV-2 e di due campioni inferiori: il primo includeva oltre 440mila adulti che si sono infettati una sola volta, il secondo (oltre 40mila adulti) persone contagiatesi due, tre o più volte. L’analisi è stata condotta sulla base dei casi di infezione registrati tra l’inizio di marzo 2020 e il 6 aprile di quest’anno. Un periodo ampio, che ha permesso di osservare anche le eventuali differenze legate alla circolazione di una variante piuttosto che di un’altra. I ricercatori si sono concentrati sulle differenze nello stato di salute rilevabili tra gli appartenenti ai diversi gruppi nei trenta giorni successivi all’infezione e a sei mesi di distanza.

Sars-CoV-2: reinfezioni, le ricadute nel breve e nel lungo periodo

Così si è arrivati a quantificare un rischio aumentato di decesso (doppio) e di ricovero (tre volte superiore) tra i pazienti che si sono contagiati nuovamente rispetto a coloro che sono rimasti fermi a un solo contatto con Sars-CoV-2. Conseguenze che, questo aspetto non viene chiarito nel lavoro, potrebbero essere dovute a un’azione diretta del virus o al peggioramento di condizioni cliniche già non ottimali al momento del contagio. A ogni nuovo contatto con Sars-CoV-2, però, crescerebbero le probabilità di andare incontro a complicanze: sia nella fase acuta dell’infezione sia nei mesi a venire. Un rischio che risulta tanto più concreto quanto più la base di partenza è fragile. E che può concretizzarsi nel tempo con la comparsa di disfunzioni d’organo diffuse, come probabili manifestazioni del Long-Covid.

Le conseguenze a lungo termine si vedono su tutto il corpo

Le ricadute sono state osservate anche nel tempo: con una maggiore probabilità di sviluppare problematiche croniche a carico dell’apparato respiratorio, cardiovascolaredigerente e muscolo-scheletrico, oltre che problemi di coagulazione del sangue. Le probabilità di andare incontro a un evento avverso per la salute sono risultate crescenti con l’aumentare dei contagi. Tradotto: chi si infetta tre volte rischia più di chi si è fermato a due, che a sua volta potrebbe andare incontro a complicanze con maggiore facilità rispetto a chi si è infettato una sola volta o non è mai entrato a contatto con Sars-CoV-2. Ragion per cui, secondo gli autori, «le misure per la prevenzione del contagio meritano di essere mantenute in vigore: soprattutto in vista del sopraggiungere dell’inverno e della diffusione dell’influenza».

Anziani e fragili i più a rischio (anche in caso di reinfezione)

Questo studio sancisce ciò che la comunità scientifica sospettava già da tempo. E cioè che le reinfezioni non sono sempre innocue: soprattutto nelle persone anziane, con una malattia cronica o una fragilità dovuta alla contemporanea presenza di più condizioni patologiche. Come tali, sulla base anche delle priorità fissate dal ministero della Salute nelle diverse circolari che hanno scandito l’andamento della campagna vaccinale, si ritengono coloro che sono affetti da alcune malattie respiratorie (fibrosi polmonare idiopatica, altre condizioni che necessitano di ossigenoterapia), neurologiche (sclerosi multipla, paralisi cerebrali infantili, distrofia muscolare, miastenia gravis, sclerosi laterale amiotrofica, altre malattie del motoneurone, sindromi neurologiche autoimmuni), cardiocircolatorie (scompenso cardiaco avanzato, pazienti post-shock cardiogeno), diabete o altre endocrinopatie severe, fibrosi cistica, insufficienza renale (trattata con la dialisi), da cirrosi epatica, sindrome di Down, emoglobinopatie, malattie oncoematologiche (con malattie in fase avanzata e refrattarie alle cure o in trattamento con farmaci immunosoppressivi o a meno di sei mesi dalla fine delle terapie), le persone positive all’HIV, i gravemente obesi e alcune categorie di trapiantati (o in attesa di trapianto).

Serve mantenere le protezioni e vaccinarsi

Per tutte queste persone, ma non solo, Covid-19 continua a rappresentare una minaccia per la salute. La fase che stiamo vivendo, d’altra parte, è delicata. Di fatto la gestione della pandemia è affidata in larga parte alla sensibilità dei singoli. E se i ragazzi e i giovani adulti sani e regolarmente vaccinati possono sentirsi relativamente al sicuro, lo stesso non si può dire per i grandi anziani e le persone ammalate: indipendentemente dall’età. Sulla base di questa evenienza, secondo gli esperti, ora sono tre le contromisure da adottare: utilizzare la mascherina nei luoghi chiusi e fare il possibile per vaccinare con il booster e nei confronti dell’influenza il maggior numero di persone (la vaccinazione antinfluenzale è infatti raccomandata a tutta la popolazione).

I rischi rimangono bassi nei giovani e nelle persone sane

Il lavoro non ha cancellato l’esperienza acquisita in questi mesi: anzi. Rimane confermato che, grazie anche alla protezione offerta dai vaccini, le reinfezioni sono mediamente meno rischiose rispetto alla prima esposizione al virus. In persone che hanno già contratto l’infezione da Sars-CoV-2, la probabilità che (ri)evolva in forme gravi (o addirittura letali) è infatti estremamente bassa. Una conferma, in tal senso, è giunta già nei mesi scorsi da uno studio italiano pubblicato sulla rivista «Frontiers in Public Health». Con l’obbiettivo di indagare il tasso di reinfezione e l’evoluzione della malattia a oltre un anno di distanza dalla prima guarigione, nell’indagine sono stati coinvolti oltre centomila pazienti abruzzesi: ammalatisi di Covid-19 dall’inizio della pandemia ed entro lo scorso febbraio. Dai dati raccolti è emerso che meno dell’uno per cento dei guariti ha avuto una seconda infezione. Ma soprattutto, meno di una persona su diecimila ha avuto una forma grave di Covid-19 dopo la prima guarigione (con otto casi di ospedalizzazione e due decessi). Altro dato importante, i casi di reinfezione sono rimasti sostanzialmente costanti nel tempo. Anche a distanza di quasi due anni dalla guarigione: elemento che suggerisce come la protezione che deriva dall’immunità naturale resista di norma più di 12 mesi.

Per saperne di più:

Acute and postacute sequelae associated with SARS-CoV-2 reinfection, Nature Medicine

Risk of SARS-CoV-2 Reinfection 18 Months After Primary Infection: Population-Level Observational Study, Frontiers in Public Health

Rapporti Covid-19, Istituto Superiore di Sanità

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