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β-talassemia: storia di un successo della medicina italiana

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In Italia di β-talassemia – malattia di cui ieri si è celebrata la Giornata mondiale – si muore sempre meno. Merito soprattutto dei progressi nella conoscenza registrati negli ultimi quattro decenni a partire anche dal nostro Paese, da sempre un riferimento in questo ambito. Per la specifica prevalenza di questa malattia del sangue (si tratta di una emoglobinopatia), che ha permesso che la ricerca e l’assistenza clinica sviluppate lungo la Penisola divenissero un faro acceso per la comunità scientifica internazionale. 

β-talassemia: di cosa si tratta?

La β-talassemia (o anemia mediterranea) è una malattia ereditaria del sangue ed è caratterizzata da un’anemia cronica dovuta alla sintesi ridotta o assente di una delle catene polipeptidiche presenti nella molecola dell’emoglobina.

La condizione – il nome deriva dal greco “thàlassa” (mare) e “haîma” (sangue) – era tipicamente presente tra le popolazioni residenti nelle aree paludose o acquitrinose infestate dalla malaria. Questo perché l’anomalia dei globuli rossi dei talassemici ostacola la riproduzione del plasmodio, così da rendere la persona più resistente alla malattia.

Ecco spiegato perché in Italia la talassemia si sia diffusa soprattutto in Sardegna, in Sicilia, nelle regioni meridionali e nella zona del delta del Po

La mutazione genetica collegata alla talassemia causa una scarsa ossigenazione di tessuti, organi e muscoli che determina stanchezza e una crescita ridotta. Si tratta di una malattia che colpisce in media uno su centomila neonati l’anno nel mondo, con un’incidenza maggiore nei Paesi mediterranei, in Cina e nel sud-est asiatico.

β-talassemia: oltre il 90 per cento dei pazienti italiani vivi oltre i 30 anni

Nei mesi scorsi i risultati raggiunti dagli specialisti italiani nella cura della β-talassemia hanno conquistato le pagine dell’American Journal of Hematology: una delle più importanti riviste scientifiche di settore. Gli autori hanno riportato il dato relativo alla sopravvivenza e la frequenza delle complicanze registrate in 709 pazienti affetti da β-talassemia dipendente dalle trasfusioni, seguiti in otto centri di riferimento sparsi lungo la penisola (Torino, Genova, Milano, Pavia, Ferrara, Bari e due a Catania).

Osservandoli fino al 2020, gli ematologi hanno potuto rilevare come la sopravvivenza a trent’anni sia passata dall’83,6 per cento per i nati tra il 1970 e il 1974 al 93,3 per cento per i più giovani (1985-1997). Opposto il trend dei decessi per complicanze cardiache (calati grazie alla diffusione della terapia orale chelante per limitare la tossicità del ferro) e legate al trapianto di cellule staminali emopoietiche (riduzione ottenuta scegliendo di trapiantare soprattutto i pazienti più giovani), un ulteriore opportunità terapeutica disponibile per i pazienti β-talassemici.

I progressi della ricerca sulla β-talassemia

Dati frutto, secondo gli esperti, di un “accesso alle cure più adeguate migliorato rispetto al passato”, di “una ricerca continua” e di “migliori pratiche di condivisione tra i centri”.

Se almeno per i primi tre decenni dopo la scoperta della malattia da parte del pediatra statunitense Thomas Benton Cooley la prospettiva di vita per i pazienti era limitata all’infanzia, nell’arco di mezzo secolo sono stati compiuti diversi progressi grazie ai quali è stato possibile raggiungere i risultati riportati nel lavoro.

Tra questi, in primis, il progressivo incremento degli standard di sicurezza delle trasfusioni. A seguire, la scoperta della necessità di trattare i talassemici anche con una terapia chelante (in grado di ridurre il rischio di andare incontro a danni a carico di diversi organi provocati dal ferro) e l’opportunità di trattare i casi più complessi ricorrendo al trapianto di staminali emopoietiche diffusasi a partire dagli anni ‘80.

Opportunità che hanno contribuito a determinare un aumento della sopravvivenza, oltre che della qualità della vita dei malati.

Si attende l’arrivo della terapia genica

Le speranze future sono adesso riposte sulla terapia genica, che potendo offrire la speranza di una guarigione definitiva (preservando così i talassemici dal rischio di sviluppare trombosi, infezioni, malattie epatiche e tumori) si accinge a rappresentare la soluzione che i talassemici aspettano da un secolo.

La prospettiva della terapia genica nella cura della β-talassemia ha origine anche nel nostro Paese. È all’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma che è stato infatti arruolato un terzo dei pazienti coinvolti nella sperimentazione clinica di una delle terapie geniche rivelatesi in grado di correggere il difetto alla base della malattia genetica.

L’idea che vi è alla base è semplice: ingegnerizzare le cellule staminali emopoietiche trasferendo al loro interno una copia corretta del gene della β-globina (attraverso un retrovirus usato come vettore o mediante la tecnologia Crispr/Cas9). Processo che avviene ex-vivo, prima delle reinfusione delle staminali ingegnerizzate nel torrente circolatorio del paziente.

Cure avanzate e sostenibilità economica: un rebus ancora da sciogliere

La terapia genica si candida dunque a diventare il terzo pilastro del trattamento della β-talassemia. Ma anche quello risolutivo, se si considerano i limiti delle periodiche trasfusioni di sangue e del trapianto di midollo da donatore compatibile. Oltre ai rischi non indifferenti soprattutto se si va incontro al trapianto dopo l’adolescenza.

Rimane però un nodo: quello rappresentato dalla sostenibilità economica di queste terapie. Al momento il trattamento è ritenuto indicato all’incirca per un migliaio di nostri connazionali, che di fatto però non possono ancora accedervi (se non all’interno di studi clinici).

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